Un suono che tutto può

di Giuditta Comerci

fotografie di Giuseppe Riserbato

pubblicato su Mestieri d’Arte & Design. Crafts Culture n. 30 aprile 2025

«Orfeo son io, che d’Euridice i passi
Segue per queste tenebrose arene.»

Alle porte dell’Inferno, l’Orfeo di Monteverdi si annuncia a Caronte con uno dei più noti assoli di arpa del melodramma seicentesco. Con suono teso e carezzevole convince il traghettatore a trasportarlo, e riporterebbe alla vita Euridice, se si fidasse di quello più che del proprio sguardo. La lira potente di Orfeo è resa dall’arpa nell’idea sonora di Monteverdi, ma ascoltandola non ci riesce difficile immaginarne l’accostamento a un dono divino, a un suono che tutto può, che tutto ammansisce e placa, allargando il cuore degli esseri viventi come già immaginata nelle mani del dio dell’amore.

Dario Pontiggia unisce tradizione e innovazione nella creazione di arpe ispirate ai modelli storici del XVII secolo. Nel suo laboratorio, tra raspe e macchine a controllo numerico, porta avanti un lavoro di perfezione artigianale, facendo convivere manualità e tecnologia.

 

Non è forse un caso che si tratti dello strumento musicale più antico di cui si abbia testimonianza, rintracciabile in tutte le epoche e in tutti i territori nelle sue diverse forme, attinente all’uso solistico come all’organico in orchestra sinfonica. In relazione a tanta versatilità oggi si ritrovano tanto costruttori di arpe moderne a pedali con doppio movimento, come la rinomata ditta Victor Salvi di Piasco, di fama mondiale, quanto costruttori di copie di strumenti antichi, come Dario Pontiggia, il cui laboratorio affianca Milano nella cittadina di Sesto San Giovanni.

 

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Pontiggia comincia a costruire chitarre nel 1997, per amore di uno strumento che aveva imparato a suonare e per la spinta alla costruzione che gli deriva dal corso in Design al Politecnico di Milano. Si specializza, allena la sua manualità, approfondisce con maestri liutai, arriva a strumenti di ottima fattura che velocemente diventano noti, commissionati da straordinari strumentisti quali Oscar Ghiglia, erede d’arte di Segovia. Ma Dario non comprende perché applicare un set di corde troppo facilmente acquistate a uno strumento che ha previsto trecento ore di lavoro. «Pensare è scommettere sulla domanda contro il destino», scrive Haim Baharier: domandare è generare uno spazio in cui si attende fiduciosi una risposta e si cambia il futuro. L’amore per il funzionamento e per tutto ciò che riguarda il suo strumento pone una domanda, e Pontiggia intuisce che rivolgersi all’arpa lo avrebbe obbligato ad aprire uno spazio e cercare la risposta.

 

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La prima costruzione di un’arpa da autodidatta gli impone il confronto con importanti costruttori da cui ottenere informazioni sul funzionamento delle corde: il cembalaro milanese Ferdinando Granziera, il cordaio vicentino Mimmo Peruffo, dalle cui lezioni Pontiggia trae un sistema matematico personale per il calcolo delle corde. L’apprendistato di Pontiggia sullo strumento avviene nel 2005 con metodo da bottega rinascimentale, ovvero: copiando pedissequamente l’opera di un maestro, sezionandone il capolavoro, cercando di scoprirne ogni dettaglio e ogni modalità costruttiva per comprenderne la mentalità e gli obiettivi. Sceglie di partire dal massimo livello raggiunto in epoca barocca: la sua prima arpa dovrà essere modello della Barberini, uno dei più begli strumenti musicali conosciuti, costruita intorno al 1632 e custodita presso il Museo degli Strumenti Musicali di Roma. La colonna in legno coperto di foglia d’oro è interamente intarsiata, con due coppie di putti che sostengono lo stemma Barberini.

 

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La ricerca viene fatta nel modo più oggettivo possibile, perché da persona del XXI secolo, spiega Pontiggia, avrebbe altrimenti percorso un sistema culturale non aderente all’epoca dello strumento: Dario sceglie di non servirsi delle competenze del mondo moderno, lontane dall’oggetto del suo interesse, ma delle sue tecnologie avanzatissime. Il cuore della ricostruzione degli strumenti antichi è per Pontiggia esattamente questo: comprendere le ragioni dei maestri e ottenere ciò che essi avrebbero voluto. Il costruttore riscopre e ricostruisce, restando quanto più aderente alle tracce dell’origine.

«Non si è artisti se non si è artigiani, non si è artigiani se non si è operai», dice Pontiggia, il quale riconosce nella sua prima formazione classica l’interiorità concettuale che gli ha consentito il complesso passaggio alla visione artistica, e nella formazione tecnica la struttura fondamentale per costruire strumenti musicali: oggetti d’arte che devono essere adoperati, dotati di una componente tecnica essenziale per evitarne lo scoppio – problema concreto dell’arpa per le tensioni operate dalle corde che raggiungono forze di quintali di peso.

 

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Riscoprire le regole tecniche del passato è un lavoro archeologico: non si tratta soltanto di modalità costruttive, ma di fisicità, gestualità, del modo di pensare l’interazione con lo strumento di quattrocento anni fa, di corde in materiale naturale dall’approccio estremamente grezzo rispetto alle più recenti, eppure più autentiche nel suono pensato dai compositori, che con il suono costruivano a loro volta. Il passaggio dalla storicità al feticismo è sottile, così come quello dalla storicità a un compromesso difficile da giustificare. Oggi Dario Pontiggia è alla quinta serie di arpe su modello Barberini, corrispondenti a cinque fasi di perfezionamento, quasi impercettibile all’esterno, ma rilevante ai fini del suo percorso. Dal momento in cui Pontiggia ottiene dal costruttore e suo Maestro Beat Wolf il sapere della costruzione dell’arpa a pedali Luigi XVI, un’arpa barocca con pedali che dai primi dell’Ottocento a Wolf ha recepito un vuoto costruttivo, ne diviene l’unico costruttore al mondo.

 

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L’avanguardia della sua attrezzatura e dei macchinari presenti nel laboratorio, insieme a otto collaboratori e a un settore tessile dedicato alle custodie per gli strumenti, si sposano a questo punto perfettamente con la maniacale adesione all’origine dei suoi modelli: tra la raspa e la fresa a controllo numerico non c’è una differenza di valore, poiché per Dario la qualità dello strumento deriva dalla qualità del progetto, dell’assemblaggio e dei materiali. “Fatto a mano” è la gestione dell’opera singola: se possiamo portare ai massimi livelli il pezzo singolo, questo ha valore.

Giuditta Comerci

Giuditta Comerci

Ricercatrice e curatrice di eventi culturali, è direttore artistico dell’Associazione Noema per lo studio e la promozione della cultura musicale. È cultore della materia Mestieri d’arte e bellezza italiana al Politecnico di Milano dal 2015 e coautrice de Il valore del mestiere (Marsilio, 2014).

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