Giuseppe Rivadossi, scultore e artigiano, inizia a lavorare il legno da ragazzo, trasferendo nelle sue opere la sua visione poetica dell’abitare. Realizzati interamente a mano, con tecniche sopraffine, i suoi arredi si caratterizzano per le lavorazioni a bassorilievo e il rispetto estremo dei materiali che vengono esaltati nelle loro peculiarità naturali. Nascono così mobili, vere e proprie sculture per interni, ma anche, con Habito, ambienti interamente personalizzati che rispecchiano lo stile e il carattere di chi li abita.
Le opere di Giuseppe Rivadossi sono vere e proprie architetture in scala ridotta, realizzate per creare armonia negli spazi dell’abitare e riconciliare l’uomo con la natura. I suoi mobili sono “creature” nate dall’anima e dalla volontà di valorizzare la nobiltà delle materie prime.
Un poeta del suo operare, come ama definirsi, perché i suoi mobili raccontano di una continua ricerca di connessione con la nostra stessa essenza, creata attraverso l’immagine, la creatività e la sensibilità. «Parto sempre da un’osservazione che mi è venuta naturale: l’ambiente parla e dice tutto della nostra conoscenza, della nostra cultura, della nostra onestà e del nostro sentire,» racconta Giuseppe Rivadossi. «Se tutto quello che facciamo fosse fatto con una coscienza del vivere e della bellezza della natura e del Creato, ogni cosa avrebbe un segno poetico. Sarebbe il recupero di un linguaggio legato alla vita.»
Una riscoperta non solo del concetto di bellezza ma anche dell’essenza del lavoro. «Purtroppo oggi viviamo in una situazione terribile in cui il lavoro è solo in funzione del mercato: una cosa umiliante per l’uomo perché porta l’individuo a faticare senza senso,» spiega Giuseppe con semplicità e chiarezza. E continua: «Con il progresso tecnologico abbiamo trovato possibilità straordinarie ma le stiamo usando molto male, solo per il business. Questo va contro la natura umana. Tutto quello che facciamo parla, racconta qualcosa. Ma se dice solo “fatti furbo” per conquistare il mercato, contribuiamo alla nostra rovina. Il mio scopo è quello di realizzare ambienti dove l’accoglienza, il senso della riconoscenza, la bellezza siano ancora sentiti e vivi.»
Riscoprire dunque un modo di lavorare che ha come finalità quella di riconciliarsi con la natura. «Con questo spirito lavoriamo e abbiamo ritrovato le tecniche che mettono in evidenza il materiale, la struttura, il piacere di abitare in una situazione in cui tutto è fatto con un senso del rispetto, dell’armonia: da lì nascono i nostri lavori,» sottolinea Giuseppe Rivadossi. «Questa è la visione che vogliamo portare avanti in un ambiente dove invece stanno prevalendo le organizzazioni come fatto di mercato, come capacità di imporsi su una piazza. Il lavoro dovrebbe essere un fatto creativo. Oggi siamo in una fase di meccanizzazione non priva d’interesse ma che sta travolgendo l’uomo, annientandolo. Questo non va bene.»
«Non c’è umanità. In una grande fabbrica non sai neanche perché e per chi stai facendo un lavoro.» Prosegue il figlio, Emanuele Rivadossi. «Scriveva Raimon Panikkar che il lavoro deve aiutare l’uomo a partecipare al dinamismo dell’Universo. Altrimenti che lavoro è? Che funzione ha realmente? Penso che ognuno dovrebbe avere questo anelito e declinarlo a modo suo.»
Ovvero, riversare l’anima all’interno del proprio operare, come sosteneva Osho: «Indipendentemente da ciò che crei, non è importante che tu dipinga o scolpisca, oppure che tu faccia il giardiniere, il calzolaio o il falegname. È importante che ti chieda: sto riversando tutta la mia anima in ciò che creo?»
E proprio in questo sta la differenza degli arredi usciti dalla bottega di Rivadossi: raccontano di sentimenti e valori e riescono a entrare in empatia con le persone, parlando di un mondo in cui la connessione con la natura viene espressa attraverso la forma, il materiale e l’anima di chi lo ha realizzato.
Onesti, veri, caratterizzati da accurate lavorazioni che si esprimono in ogni dettaglio. Come nella credenza Del Ponto, che descrive tutta la maestria dell’artista bresciano, realizzata come blocco monolitico utilizzando il legno con la fibra verticale, scavata manualmente su entrambi i lati, per mezzo di una sgorbia. Con uno studio ad hoc anche per i chiavistelli progettati e realizzati in acciaio brunito. «Lavorare il legno appartiene alle nostre radici,» racconta Emanuele Rivadossi. «Oggi siamo circondati da materiali che cercano di essere altro: pensiamo alla plastica che imita il legno o la pietra. Una cultura ingannevole che abitua l’uomo a sospettare di ciò che ha di fronte. Il nostro intento è invece quello di suggerire una nostra integrità e coerenza: per questo lavoriamo materie prime “archetipiche” come il legno, il metallo, la pietra e lo facciamo secondo la loro propria natura, con l’obiettivo di valorizzarne l’essenza stessa, di stimolarne le vibrazioni primarie.»
Ma alla fine Giuseppe Rivadossi, chiamato da alcuni il poeta del legno e da Vittorio Sgarbi «potenzialmente tra i più grandi architetti di questo secolo», come si definisce? «Semplicemente un onesto lavoratore.»