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L’insorgenza dell’archetipo

Testo di Massimo Bignardi

La furia della guerra aveva smesso di mietere vittime. Il mondo intero riassaporava il fresco vento della pace. Gli artisti rientravano nei loro atelier, riprendendo a “costruire” nuove prospettive. Scriveva Henri Focillon, negli anni tragici della guerra, che «l’arte si fa con le mani. Esse sono lo strumento della creazione, ma prima di tutto l’organo della conoscenza.»

Pablo Picasso, Joan Miró, Josep Llorens i Artigas e Guido Gambone sono stati interpreti, nell’immediato secondo dopoguerra, di una nuova stagione della ceramica contemporanea.

Il desiderio di conoscenza dell’ancestrale universo della ceramica, tra il 1946 e il 1956, segna una nuova stagione culturale che vede coinvolti Picasso e Miró, ma anche due significativi interpreti della ceramica contemporanea, Josep Llorens i Artigas e Guido Gambone. La loro è stata un’esperienza vissuta, in piena autonomia, sulle coste di un Mediterraneo che conservava la sacralità del mito: Artigas e Miró a Gallifa nei pressi di Tarragona, Picasso a Vallauris, nelle Alpi Marittime affacciate sulla Costa Azzurra, Guido Gambone a Vietri sul Mare, sulla Costa di Amalfi. Quattro artisti che, nella difficile congiuntura post-bellica, rinnovano il lessico della ceramica, saggiando, come fa il Centauro, avrebbe detto Focillon, «i venti e le fonti».

Hanno in comune l’attenzione alle forme e alle figure, assunte dal “territorio” archetipico mediterraneo: il dialogo, imposto dall’azione della mano, è con l’argilla, con le forme, con l’alchimia degli smalti e i colori dei metalli. Le ceramiche di Miró e di Artigas nascono da una profonda amicizia, elemento essenziale per la loro realizzazione. Questa collaborazione, avviata con maggiore intensità dal 1946, nella quale ciascuno dà il meglio di sé, è frutto di un’intesa che fa leva sulla complicità e sull’assoluta libertà. Lo studio di forme primigenie condotto da Artigas, sollecita Miró a esemplificare l’universo dei suoi segni, e il mondo “notturno” nel quale spaziava il suo immaginario scopre l’infinito del bianco.

È a Vallauris che, negli stessi anni, Picasso incontra la ceramica: il linguaggio degli oggetti della quotidianità, le forme dettate dai tempi di chi produce stoviglie, la magia del fuoco che rende preziosa la terra, fanno presa sulla sua prorompente immaginazione: le mani donano all’oggetto la forza dell’archetipo e l’arcaica sintesi della figura. Il decoro irrompe per primo nella fabbrica Madoura dei coniugi Ramié, poi, con la complicità del torniante, sarà l’infinita gamma di vasi, con profili di figure portate a galla, dopo un tuffo negli abissi del mito: fauni, ninfe, satiri, pesci, gli stessi che l’anonimo pittore greco dell’VIII secolo a.C. aveva raffigurato, come un dizionario iconografico della fauna marina del Mediterraneo, sulla pancia del cratere del Naufragio di Pithekoussai.

A Vietri sul Mare, alle porte della Divina Costiera, Gambone elabora il rinnovamento della ceramica di tradizione, accogliendo i nuovi linguaggi artistici di quei decenni. Nell’immediato secondo dopoguerra, tra il 1948 e il 1950, il lavoro di Gambone insisterà sul dettato plastico, recuperando archetipi, propri del tessuto antropologico dell’area mediterranea e riducendo, in chiave compositiva, la figura in virtù di un processo di astrazione che lo porterà, in breve tempo, a una sintesi immaginativa di grande portata. È quanto testimoniano opere come la Faenzarella, con la quale partecipa al Premio Faenza nel 1949, e Figura femminile, dello stesso anno, esposta alla Biennale di Venezia del 1950, nella sala con Minguzzi e Melotti.

Massimo Bignardi

Massimo Bignardi

Già professore di Storia dell’Arte Contemporanea e Arte Ambientale e Architettura del Paesaggio presso l’Università di Siena, dove ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici, dirige il Museo-Fondo Regionale d’Arte Contemporanea a Baronissi.

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